a cura di Manuel Orazi
Architetto, urbanista, designer ma anche studioso di sociologia, fisica e scienza delle comunicazioni, Yona Friedman (Budapest, 1923) è tornato al centro della cultura architettonica internazionale dopo essere stato a lungo liquidato come utopista.
Membro della resistenza antinazista ungherese, Friedman ha trascorso alcuni anni a Haifa, in Israele, dove ha abbozzato la prima delle sue molteplici teorie, vale a dire il Manifesto dell’architettura mobile in cui speciali sistemi di costruzione permettono all’abitante di determinare da sé la forma, lo stile etc. del suo appartamento e di cambiarlo quando lo desidera.
Le sue proposte si distinguono perché indicano con chiarezza anche la forma sociale e politica più idonea da assumere affinché siano fattibili, come nella rivoluzionaria Continent City in cui l’Europa è vista come un gigantesco sistema di città-stato. Friedman ha conosciuto un’apprezzabile notorietà a partire dal suo trasferimento nel 1957 a Parigi, per poi cadere in disgrazia a causa del prevalere di ideologie architettoniche autoreferenziali come il neorazionalismo o effimere come il postmoderno.
Quasi di colpo la sua Ville spatiale, una struttura tridimensionale sollevata da terra organizzata secondo il principio della flessibilità e dell’autoregolazione degli abitanti, sembra oggi una soluzione praticabile. Solo quest’anno, grazie anche alla rivalutazione portata avanti da architetti e critici di fama quali Bernard Tschumi, Stefano Boeri e Hans Ulrich Obrist, Friedman si appresta a inaugurare alcune mostre in diversi paesi europei a cominciare dalla prestigiosa Serpentine Gallery di Londra.
Come spiega il favore che le sue idee incontrano oggi dopo essere state rimosse per alcuni decenni?
“Il problema credo consista nella lettura superficiale che ne è stata fatta nei primi anni ’60. Sono stati cioè trascurati tutti gli aspetti politici, sociali e comunicativi che vi erano implicati. Ho scritto libri come L’architettura mobile e Utopie realizzabili proprio per articolare compiutamente le mie teorie. Grazie allo sviluppo della tecnologia quelle proposte sono sempre più facili da realizzare e l’unica utopia da risolvere resta la raccolta del denaro necessario, ma questo è un problema per qualunque progetto di architettura”.
Qual è il principio fondamentale su cui si basano le sue proposte?
“La centralità degli abitanti e l’uso degli edifici. Sono meno interessato agli architetti, me compreso: gli architetti e gli urbanisti oggi non sono più degli artisti o ‘quelli che prendono le decisioni’, ma solo dei pubblici servitori; gli abitanti non devono essere considerati solo come dei consumatori, ma come dei professionisti altamente specializzati ed esperti in materia di habitat, e di conseguenza devono essere coinvolti nella determinazione di ogni progetto. La realtà dipende sempre dall’immaginazione delle persone”.
Come vive allora la frenetica attenzione dei media per gli architetti?
“Gli architetti sentono la comunicazione come necessaria per poter realizzare le proprie idee, ma comunicarle è molto più complicato che fare uno schizzo o un semplice diagramma. In un certo senso tutto è comunicazione, in ogni processo in cui sono implicati più di una persona bisogna porsi il problema di una comunicazione altrimenti si diventa autistici. Però credo che una comunicazione globale sia impossibile e ci si debba quindi rivolgere soltanto a interlocutori già preparati a ricevere il nostro messaggio altrimenti si è fraintesi. In generale non mi pare che gli architetti se ne rendano conto”.
Come reagisce allora quando accomunano le forme di alcuni suoi progetti a quelle di artisti della sua generazione come Constant o ad architetti contemporanei come Rem Koolhaas?
“Se ho avuto la possibilità di essere copiato, bene, questo allora era esattamente ciò che volevo. Ho sempre voluto insegnare a un livello globale, oltre l’università. Se le mie idee sono state imitate 40 anni fa o ancora oggi significa che sono parte di un processo in atto e sono contento di esserne parte. Tutti i miei studi si basano sull’idea di processo, in definitiva è questo il carattere di tutta la mia opera”.
Crede ancora che la Ville spatiale sia l’unica soluzione per i problemi della città del XXI secolo?
“Credo che sia una possibilità e la mia proposta di una città articolata nello spazio sovrastante la città esistente è uno strumento per risolvere problemi di crescente densità laddove questi siano necessari, come nelle megalopoli cinesi dove enormi masse immigrano dalle campagne. Al contrario, in un altro mio progetto urbanistico a grande dimensione che ho chiamato Continent City ho maturato l’idea che per impedire l’esplosione di megalopoli è sufficiente collegare efficientemente tra loro città medie e grandi, un po’ come è avvenuto in Europa nell’800 con il primo sistema ferroviario. Questo ha impedito la formazione di città ingestibili da oltre 10 o 20 milioni di abitanti, e cos’è oggi l’Europa se non una rete di circa 150 città? Una città continente, appunto, che a mio avviso dovrebbe essere una federazione di città piuttosto che di nazioni. In questo senso la Ville spatiale è una risposta ai problemi di oggi mentre Continent City è un passo nel futuro”.
Pubblicata su “L’espresso”, 13 luglio 2006
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